Pubblicato da: carmenuzza | 4 Maggio 2011

Capitoli

Tra qualche minuto andrò avanti. Tra qualche minuto metterò finalmente mano a quel capitolo. Quello dove ogni parola mi ricorderà di te.

La mente mi riporta già a quel terrazzo, il tavolino bianco un po’ traballante, il posacenere e due sigarette che si consumano pigramente. Sparsi ovunque, con il rischio di volare giù per la strada, fogli pieni di scarabocchi buttati giù ridendo.

E’ un pomeriggio di luglio, non fa troppo caldo. La tua voce mi spiega come funziona un’antenna, cos’è un amplificatore, quanto “valgono” cinque watt, come si trasmette il segnale.
Poi mi parli di quando lei raccontava fiabe alla radio e tu le dedicavi canzoni la sera.

Oggi finirò quel capitolo, con la tua voce che risuona ancora limpida nella mia anima.

Lo farò per te.

Lo farò per noi.

Pubblicato da: carmenuzza | 26 agosto 2010

Un, due, tre

Un, due, tre

Quando sei piccolo, il tempo non ha significato. Giorni, settimane, mesi… anche i secondi non hanno senso.
“Quando arriviamo?”
“Tra cinque minuti”
Adesso è tra cinque minuti?”.

Un, due, tre

Quando sei piccolo, l’unico motivo per cui impieghi il tempo è per giocare a nascondino.
Forse è in quel momento che si inizia a capire qualcosa; farfugliamenti di numeri e incasinamenti delle sillabe sono motivi di scontro per chi non ha avuto tempo (eccolo che ritorna) per nascondersi.
Ma anche in questo caso, scandire quelle che sono parole convenzionali viene inteso come un esercizio di memoria, una maniera per ricordarsi che dopo il sette arriva l’otto. In fin dei conti, è per questo motivo che i più piccoli non giocano a nascondino.

Un, due, tre

Crescendo, il tempo inizia ad avere qualche significato. Estate vuol dire vacanza, inverno porta Natale, marzo significa odore di mimosa e una torta con la panna e così via…

Un, due, tre

Pian piano inizi a sentire il ticchettio di altri orologi: quello di un cuore che saltella iperattivo durante un semplice lento ad una festa, quello impaziente degli ormoni di un’adolescente che vorrebbe saltare tutti quegli inconvenienti altrimenti detti “regole”, quello di una campana che sembra non volerne sapere di annunciare la fine di quei cinque eterni anni di liceo.

Un, due, tre

Un giorno ti fermi di colpo e ti guardi all’indietro e ti stordisce un pensiero: hai raggiunto un’età abbastanza matura per iniziare a temere il tempo.
Il piccolo fagottino rosa che tenevi tra le braccia è diventata una donna testarda e coraggiosa.
Quel ragazzetto in pantaloncini corti che ti prendeva per mano durante le folli corse per strada sta per sposarsi.
Sui volti di quella coppia di eterni fidanzati si leggono le rughe, solchi inarrestabili segnati dal continuo volgere di primavere, estati, autunni, inverni.

Un, due, tre

Ti guardi attorno spaesato, come quando la giostra iniziava il suo incedere sempre più incalzante e per un folle istante riuscivi a vedere solo una macchia confusa, un insieme di luci e colori, un caleidoscopio di sensazioni che si riversavano sul petto cercando di uscire in un urlo che però restava silenzioso lasciandoti senza fiato.

Un, due, tre

La giostra continua la sua folle corsa e non puoi fare altro che sederti chiudendo gli occhi. Le palpebre, però, lasciano intravedere quei bagliori e la curiosità prende il sopravvento. Spalanchi gli occhi, le pupille si dilatano colpite dall’intensità strabiliante di quelle luci e l’urlo silenzioso trova finalmente voce e si trasforma in una risata gorgogliante.

Un, due, tre

Il tempo, quel concetto così misterioso che ti accompagna da quando sei al mondo, smette di essere qualcosa da cui fuggire, una semplice unità di misura da allungare o accorciare oppure un fantasma da combattere.

Un, due, tre

Se riuscirai a goderti il viaggio sulla giostra, allora sì che sarai sulla giusta strada.

Pubblicato da: carmenuzza | 9 Maggio 2010

La piccola Ballerina

C’era una volta una Ballerina. La prima volta che la vidi sgambettava incerta, mentre la madre le teneva le manine paffute e sorvegliava attenta ogni suo passo. Poi la Ballerina iniziò a camminare più sicura; la mamma le aveva lasciato le mani, ma non smetteva di osservarla da lontano, prestando sempre attenzione alla strada che la piccola metteva davanti a sé.

Man mano che gli anni passavano i suoi movimenti si facevano più aggraziati e aveva imparato a saltare. La potevi vedere camminare a balzoni, mentre lo zaino le sbatteva sulla schiena e il grembiule le svolazzava tra le gambe. D’estate la strada assolata era il suo regno. La Ballerina sapeva anche correre! E una mattina ricevette da suo padre il regalo più grato: una bella bicicletta. La madre pensava che fosse troppo alta, troppo pericolosa.
Qualche giorno dopo il papà lasciò che andasse da sola. L’urlo di gioia, poi la solita frase che tutti abbiamo pronunciato almeno una volta nella vita: «guarda mamma!».

Il tempo trascorreva e la piccola Ballerina si faceva sempre più alta, sempre più elegante. Un pomeriggio la vidi con una borsa grande e gli occhi pieni di emozione. Stava andando alla sua prima lezione di danza.
La piccola Ballerina stava imparando in fretta e diventava sempre più brava. La mattina andava a scuola e qualche ora dopo… giù in strada e di corsa – sempre di corsa – verso la palestra.

Il giorno del primo saggio la sua mamma era così fiera di lei! La sua piccola, le guance rosse dall’emozione, si muoveva a tempo di musica sulle punte e incantava chiunque la vedesse.

Un giorno la piccola Ballerina cadde.

Un piede rotto e il gesso dove far firmare agli amici le dediche più strane con i pastelli a cera. Solo che quel piede non guariva e da lì iniziarono le notti in lacrime.
Analisi, visite, strani nomi quasi impossibili da ripetere.
C’era però una parola che alla fine le rimase impressa nella memoria: cancro.

La piccola Ballerina aveva capito tutto, era molto intelligente, ma ce la metteva tutta per non farsi sconfiggere. Lunghe terapie, giorni e giorni ferma in ospedale, punture, medicine, tanto tempo passato lontano dalla sua famiglia, dalla sua bicicletta, dalle sue scarpette da ballo.

Un giorno d’estate la rividi.

Un fazzoletto a coprirle la testa e una sedia a rotelle per muoversi. Non poteva più camminare, saltare, correre, ballare. Però non aveva perso il sorriso. La sua mamma non la lasciava mai, sempre pronta a tenerle le mani, e lei aveva sempre pronta una risata squillante per riempire il cuore di tutti con la sua gioia.

Arrivato l’inverno, la piccola Ballerina andò via di nuovo. Ancora ospedali, ancora visite, ancora dolore. Poi  tornò a casa.

Non so cosa abbia detto alla sua mamma e al suo papà. Non so se abbia sorriso al fratello, agli zii e ai nonni. Non so se abbia stretto a sé le sue bambole.

L’ultima volta che l’ho vista era serena, l’ombra di un sorriso a rischiararle quel volto ormai freddo. C’era odore di fiori freschi; lavanda, gelsomino, rose.

La sua mamma era lì, le teneva sempre la mano. Forse quello era stato il primo gesto che aveva compiuto appena si erano viste. Immagino una donna stravolta dalla stanchezza, dal dolore, che sorride a quella vita appena creata. Immagino le promesse fatte a se stessa e a quella creatura così indifesa, mentre piano piano le accarezza una manina che si schiude.

L’indomani tanta gente si raccolse in quel cortile dove lei saltava allegra incontro alla vita.

La pioggia cadeva; sembrava riversare sul mondo tutte le lacrime che la sua mamma aveva pianto di nascosto. I tuoni coprivano i singhiozzi della sua famiglia. Le nuvole nascondevano le smorfie di dolore di tutti quelli che l’accompagnavano. In chiesa le note di una canzone risuonavano, mentre la mamma si avvicinava alla sua piccola Ballerina dentro una bara bianca e le sussurrava qualcosa.

Ieri sentivo quella canzone e guardavo quella donna alla quale hanno strappato un pezzo di cuore fissare il cielo. Chissà quali pensieri rivolgerà stasera alla sua bimba pensando a tutte quelle mamme che felici rimboccano le coperte dei loro figli.

Arrivederci piccola Ballerina. Abbi cura della tua mamma.

Pubblicato da: carmenuzza | 1 Maggio 2010

Cronache dal mio sedile

Un progetto eretico nato in sette giorni, poteva avere conclusione diversa? Undici inchieste – frutto del lavoro soprattutto notturno – potevano concludersi in maniera migliore? Effettivamente, quando dopo un esame ho pronunciato la fatidica frase «Prof., c’ho un paio di giorni vagamente liberi» non pensavo a quanto avrei sgobbato. Il peggio, con i colleghi di Eleven-Catania, abbiamo iniziato a temerlo incontrandoci davanti una stanza al secondo piano dell’ex Monastero dei Benedettini. Sì, quella sarebbe stata una settimana interminabile.

Anche questo bizzarro viaggio sembra interminabile. La parola “pazzi” è risuonata parecchie volte quando abbiamo annunciato la decisione di affrontare 800 chilometri in pullman. Ma che alternativa c’era? L’adorabile vulcano dal nome semplice quanto un codice fiscale armeno ci ha messo spalle al muro. E poi quasi nelle stesse ore il Barcellona (mica la Sancataldese!) sta facendo gli stessi chilometri e noi non saremo da meno…

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Pubblicato da: carmenuzza | 18 aprile 2010

Il lievito di Catania

«Per questo è puttana Catania, perché ha tante anime ed una sola risata.
E perciò uno si innamora, viene tradito continuamente e continua egualmente ad amarla»
Giuseppe Fava

    Catania è puttana, lo scriveva Pippo Fava quando la mia generazione doveva ancora muovere i primi passi barcollanti. Lui non era catanese di nascita, ma riusciva a sviscerare vizi e virtù di questa città meglio dei vecchietti che giocano a carte sotto gli alberi della villa Varagghi. Siamo una generazione strana, siamo i catanesi per sbaglio: viviamo in paesini pieni di altri bizzarri pendolari come noi, ma siamo cresciuti con il mito della passeggiata in via Etnea. Nati a chilometri di distanza dalle mura di Carlo V, le scuole dove ci siamo diplomati si chiamano Boggio Lera, Spedalieri, Cutelli, Eredia. Siamo quelli cresciuti con le immagini degli arrestati nelle megapagine su La Sicilia e per lunghi anni a ogni apertura di tg i nostri genitori puntualmente chiedevano «quanti n’ammazzanu oggi?».

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    Pubblicato da: carmenuzza | 23 marzo 2010

    Internet è anche…

    … una home di twitter con messaggi in inglese-francese-spagnolo-siciliano-milanese-catalano-html.

    Certo, alle volte si corre il rischio di enloquecer, ma au fond è internet’s biddizza.

    Pubblicato da: carmenuzza | 20 marzo 2010

    Cioccolato all’arancia

    Stamattina ho incontrato la signora Nunzia.

    Lei era lì, davanti all’aggeggio che dovrebbe distribuire i numeri per la coda ma in realtà riesce solo a farti venire dubbi circa la tua presenza in un ufficio postale. Con mezzo sorriso impaziente le ho chiesto quale operazione dovesse fare e le ho preso il bigliettino giusto. Qualche istante e l’avevo già dimenticata, presa com’ero dalla compilazione di bollettini e moduli.

    Una volta posata la penna e alzato lo sguardo, l’ho vista sorridermi timidamente. “Signorina, me lo compila il modulo? La cassiera dice che non può, ma io non so leggere…” bisbiglia vergognandosi sempre di più ad ogni parola che si lascia sfuggire.
    La guardo per qualche momento, più sorpresa dal diniego dell’impiegata che dalla richiesta, e Nunzia si affretta a chiarire: “devo mandare la raccomandata all’Inps, sennò a mio figlio non gli pagano l’assicurazione. Sa, si è fatto male a lavoro e se non ci danno i soldi come la paghiamo la terapia?”.

    Ho ripreso la penna e ho copiato mittente e ricevente con cura. Ogni tanto guardavo la signora accanto a me; i suoi capelli grigi raccolti in uno chignon stretto, il cappotto troppo pesante per una giornata – finalmente! – primaverile, le labbra serrate e lo sguardo concentrato. Sembrava volesse prestarmi un po’ della sua attenzione, aiutarmi a tracciare quei segni sconosciuti sul foglio.

    Quando le ho restituito il modulo mi ha guardato intensamente, come se volesse impremere il mio volto nella sua memoria. Poi, con un piccolo movimento del capo mi ha ringraziata e si è avviata verso l’impiegata. Il tempo di notare la sua camminata ciondolante e un bip sgraziato annuncia il mio turno.

    Il sole fa capolino tra qualche nuvola e il suo riflesso sugli occhiali mi acceca. Sento una mano ruvida afferrarmi e voltandomi ritrovo la signora Nunzia.
    “Grazie signorina” mi dice. Poi fruga tra le tasche del cappotto e mi porge un cioccolattino.

    “Perché sorridi?” mi chiedono.
    “Oggi ho incontrato la signora Nunzia” rispondo mentre scarto un cioccolattino all’arancia.

    Pubblicato da: carmenuzza | 15 marzo 2010

    Vendette

    Ok, non ho resistito. Confesso di aver commesso nuovamente un reato, il “risveglio filarmonico primaverile”. Per far comprendere meglio alla blogosfera cosa mai ho combinato, incollo un vecchio post scritto quasi due anni fa.

    Chi mi conosce lo sa, sono una persona molto buona, di rado perdo le staffe e solitamente non lo faccio in pubblico (tranne una volta… ma quella è storia, o meglio leggenda).
    Esiste tuttavia una persona che ha il raro dono di farmi perdere il lume della ragione: la mia vicina.

    I primi tempi ci si conosce, si scambiano battuttine sul tempo, ci si consiglia sulle piante (“non le conviene piantare gerani, i passerotti e le colombe li distruggono” e lei che fa? Pianta gerani, of course).
    Poi pian piano lei si rivela l’isterica che è, con tanto di scena madre.
    Bon, un altro vicino – metaforicamente – andato.

    Ma poi avvenne, commise un grosso errore.

    Sera di autunno, tempo più che clemente e balconi ancora spalancati. Nulla è più indicato della sonata “A Kreutzer” di Beethoven, in una fantastica esecuzione di Martha Argerich e Itzhak Perlman. Praticamente uno dei miei brani preferiti. Nel silenzio tra un movimento e il successivo si leva la voce di questa donna: “Ma chi è stu sgrusciu? Mica i’è musica!”. (Traduco per i non blilingue: “Ohibò! Ma cos’è codesto rumore? Non si tratta mica di musica”).
    Per una che ascolta D’Alessio e canta al karaoke “Oh eppi dei” effettivamente è un’analisi degna del più eccelso critico musicale, ma per me è stata l’equivalente di una botta in testa.
    Okay, passiamo oltre, ignorala, mi consiglia la sorella notando lo sguardo omicida.
    Due brani dopo (un valzer di Chopin) e si ode: “ma comu fa a ascutari ssi cosi?” (“Perdincibacco, come riuscirà a udire codesti suoni?”).
    L’omicidio comporta una gran mole di scartoffie e beghe burocratiche: questo pensiero ha sedato la mia sete di sangue.
    Poi se n’è aggiunto uno più subdolo: vendetta!

    Così ho atteso, sono passati mesi durante i quali ho continuato ad ascoltare la musica classica più assurda (compresi brani medioevali o la Matthäuspassion di Bach), ma senza eccedere nei decibel e beandomi grazie alla nuova cuffia wireless che mi permette perfino di cucinare senza farmi uccidere dal resto degli abitanti di casa.

    Stamattina ho colpito.
    Ho atteso il momento migliore.
    Ieri sera puntata speciale del Grande Fratello (“La nostra avventura” o roba simile), terminata a orari marzulliani. Ovviamente lei sarà stata incollata fino a tarda sera, trepidante, in attesa di chissà quali rivelazioni sulle vite di queste persone così ammirevoli e degne di primetime.
    Oggi ero sola in casa. 15 gradi percepiti, venticello profumato di gelsomino, ergo finestre finalmente aperte.
    Ore nove e trenta, casse dello stereo pronte e nella playlist uno dei brani più indigeribili della storia, una cosa che fa venire l’orticaria anche a molti appassionati della classica (ma che io amo, ça va sans dire…): il Preludio del Tristan und Isolde di Wagner.
    Non contenta, infiersco (con l’ausilio di Fraulein Olivia) aggiungendo l’Inno alla gioia di Beethoven. Per chi non lo sapesse, il celebre brano che quasi tutti hanno canticchiato almeno una volta nella vita non è che un pezzetto di un’intera sinfonia che viene ripreso più volte – maestosamente – da due cori più un’orchestra intera.

    Colpita.
    Affondata.

    “O Freunde, nicht diese Töne!
    Sondern laßt uns angenehmere
    anstimmen und freudenvollere.
    Freude!”

    “Amici, non questi toni!
    Un canto più grato leviamo al cielo
    di gioia!
    Gioia!”

    Ah, mio caro Ludwig. Non avresti potuto dirlo meglio!

    Pubblicato da: carmenuzza | 6 marzo 2010

    El voto baldío – Il voto inutile

    Giusto ieri, Yoani Sánchez ha scritto questo post nel suo blog.
    Il suo sito, le vite che racconta, sono dedicati alla generazione “Y”, i giovani cubani che vivono con una costante gana de gritar.

    Oggi, questo post mi sembra quasi una profezia, un sussurro di Cassandra.  Spero vivamente di sbagliarmi.

    “Veo a mis conciudadanos ir como autómatas a la bodega, vegetar mansamente en el trabajo y colar sin esperanzas las boletas en las urnas. Sus vidas transcurren mientras compran el pan –cada vez más pequeño-, cobran el simbólico salario que no les alcanza ni para malvivir y alzan la mano en las asambleas de nominación de candidatos. Ninguno de los elegidos en el actual proceso electoral logrará resolverles esos problemas cotidianos que lastran la vida en Cuba. De los propuestos, apenas si se conoce su foto y una biografía colmada de “hazañas”, en la que se declara –casi siempre- que tienen “un origen humilde”. No aparece siquiera mencionada una palabra acerca de sus programas o intenciones después que asuman el nuevo cargo.

    Curiosamente, casi todos los que lleguen a delegados de circunscripción son militantes del PCC y ponen su disciplina partidista por encima de los deberes para con los electores. No van a representarnos frente al gobierno, ni a ser nuestra voz proyectada hacia las instituciones, sino que fungirán como los heraldos de las malas nuevas llegadas desde arriba, canales de transmisión de esas regulaciones y directrices que decidan unos pocos. En más de treinta años de su existencia estos representantes del Poder Popular no han logrado que la basura se recoja eficientemente, las panaderías trabajen con calidad y las fosas albañales no supuren por todas partes. Tampoco encarnan la heterogeneidad de tendencias existentes en nuestra sociedad. Han llegado a esos puestos más por su probada fidelidad que por su capacidad de gestión.

    Esta noche es la reunión para proponer candidatos en la zona de bloques de concreto donde vivo. La citación ha llegado desde hace un par de días mientras en la tele nos convocaban a elegir a los mejores y más capaces. Sin embargo, no me queda ni pizca de fe en un mecanismo que ha probado su inoperatividad y su sectarismo. Me gustaría levantar la mano por el vecino de verbo firme y proyectos concretos que vive al frente, pero hay órdenes de salirle al paso a quien nomine a un “disidente”, incluso a esos que sólo parecen ser proclives al cambio. Existen muchas posibilidades de que sea ratificado el mismo delegado que desde hace más de diez años nos promete soluciones, a sabiendas que no está en sus manos cumplirlas. Él es el cómodo candidato de estas elecciones baldías, y nosotros meros figurines que deben alzar la mano o rellenar la boleta”.

    Leggi la traduzione.

    Pubblicato da: carmenuzza | 27 febbraio 2010

    Fotografie

    C’è una foto.
    Tre persone, così diverse ma allo stesso tempo così simili, si trovano davanti all’obiettivo.
    Un ragazzo e due ragazze, uniti da qualcosa che non è possibile nemmeno spiegare.

    Lui è il più grande: l’ombra di un sorriso sulle labbra, gli occhi che rivelano tutta la felicità di trovarsi in quella stanza. È facile immaginare come qualche secondo dopo lo scatto del flash la sua risata riempirà i cuori di chi la ascolterà.

    Alla sua destra si trova – quasi a testa in giù – la più piccola dei tre. È un folletto, lo scricciolo che quando manca riempie la casa di un ingombrante silenzio. Ovviamente sta ridendo, non può farne a meno quando si trovano tutti e tre assieme. La testa appoggiata a lui, il suo punto di riferimento nel mondo.

    Poi ci sono io. Sorrido, ovviamente. È impossibile trattenersi quando si parla di qualsiasi cosa con la naturalezza, con l’affiatamento, con il divertimento che ci contraddistingue. Che tratti del “piano pirofilo”, di politica, di libri, dell’antica Roma o di cucina, ogni quattro-cinque frasi ci scappa una risata, una battuta celebre (il piano pirofilo, per l’appunto) che appena ritorna alla mente ci riempie il cuore di gioia.

    Quella foto è sempre con me. Mi accompagna quando sono felice e – ancora di più – quando sono triste. È il mio baluardo, la forza che mi costringe a dare sempre il meglio, ad andare avanti.
    Perché sono sicura che quelle persone camminano sempre accanto a me.

    Grazie,
    C.

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