Pubblicato da: carmenuzza | 4 febbraio 2010

Binari

Gironzolare dalle parti della stazione di una grande città è come entrare in un microcosmo dominato da leggi parallele a quelle usuali, ma leggermente differenti.
Varcare la soglia – leggermente puzzolente, a essere sinceri – di una stazione ferroviaria ti catapulta in un mondo nel quale regna un continuo stato di amarezza e nostalgia. E’ come un viaggio attraverso lo specchio di Alice: un attimo prima sei circondato da autobus, taxi e parcheggiatori abusivi su di giri… e l’attimo dopo vivi il tutto da una strana angolazione.

Il primo impatto è con la sala d’aspetto: democraticamente seduti uno accanto all’altro, si possono trovare studenti sonnacchiosi, pendolari nervosi per l’ennesimo ritardo, famigliole con pressoché l’intero contenuto di una casa stipato in sei o sette carrelli, giovanotti scortati da una lacrimosa mamma e un papà teso. A dire il vero, da quando è stata sospesa la leva obbligatoria è più difficile incontrare i classici branchi di diciottenni in partenza per la naja. Una volta fui travolta da un plotone di baldanzosi sbarbatelli che era riuscito nell’impresa di perdere il treno per Messina. Ma questa è un’altra storia…

La luce fioca e funebre della sala d’aspetto si disperde nel cielo terso di un mattino di gennaio. Basta aprire nuovamente le porte e ci si ritrova davanti al mare scintillante. Se si è fortunati si evita l’infarto causato dai non meglio identificati rumori emessi da motrici e affini, altrimenti il balzo di qualche centimetro è assicurato.

Camminare lungo i binari è come fare un tuffo nel passato. Chi non ha mai atteso parenti o amici in ritardo contando le traversine, camminando accanto alla linea bianca (oggi l’hanno trasformata in giallo acceso), usando le più che inutili bilance a pagamento? I più audaci chiedevano duecento lire ai genitori, altrimenti ci si accontentava di usarle come trampolino per spericolati saltelli.

Cambiare binario significa usare quei sottopassaggi claustrofobici zeppi di disegni sconci o numeri di telefono. Al massimo si trova qualche volantino scribacchiato e due o tre adesivi strappati.

Esci dal tunnel e t’imbatti in una famigliola dell’est. I capelli della madre somigliano al grano cantato dai migliori poeti, gli occhi della ragazzina sono di un azzurro sconvolgente. Il padre rimprovera un ragazzino iperattivo che ha deciso di usare la panchina di marmo come palco per chissà quale spettacolo che diverte la sorellina. Lei lo vorrebbe imitare, smania per raggiungere il sedile, però un passeggino logoro ma pulito e ben tenuto la trattiene.

Volti lo sguardo giusto in tempo per vedere avvicinarsi a passo d’uomo un treno. Una voce metallica avverte che la destinazione è Roma. Due suore e una donna di mezza età si avvicinano a passo svelto e si arrampicano sulla scaletta. Un ragazzo di circa vent’anni invece rimane titubante a terra. Tiene per mano una ragazza dallo sguardo triste. Lui vorrebbe essere forte, glielo leggi nello sguardo, ma il sorriso un po’ spavaldo che mette su non convince. Un ultimo abbraccio, due parole sussurate e poi con un salto si allontana. Lei lo segue lungo il binario, la mano davanti alle labbra, come se cercasse di prolungare o conservare la sensazione di quell’ultimo bacio.

Sbuffando e stridendo, il treno se ne va e riesci a vedere anche gli altri binari. Più in là il mare continua la sua danza infinita. Voltandoti, noti che il pendolare nervoso e lo studente (svegliatosi provvedenzialmente) parlano animatamente con il capostazione. “Non è possibile”, “Sempre in ritardo”, “E’ una vergogna”. Questo pensi stiano dicendo, ma non riesci a sentire granché; la voce metallica avverte che un altro treno è in arrivo.

Mi raccomando, appena arrivi a Messina e sali sul traghetto chiama. E attento al borsone. E dì che i cannoli sono quelli veri, fatti con la ricotta fresca”. Questo lo riesci a sentire: è la mamma lacrimosa che dà le ultime raccomandazioni al figlio. Lui annuisce accondiscendente, mentre con un’occhiata comicamente disperata chiede aiuto al padre. Il treno si avvicina, rallenta, si ferma. Quando riparte i genitori si abbracciano stretti. Con una morsa al cuore, senti che è più doloroso il loro arrivederci: salutare un figlio che va via da te dev’essere una di quelle paure che accompagna silenziosamente la vita di ogni genitore. Quando esplode, sai che le loro vite saranno marcate per sempre da quell’attimo in quella stazione puzzolente.

Finalmente arriva il treno che aspettavi tu. Un sorriso velato di malinconia, un abbraccio che sa già di ripartenza, e sei pronto ad attraversare nuovamente lo specchio.
Sorridi alla bimba che è riuscita a convincere i genitori a farla salire sulla panchina, attraversi il tunnel e incontri la popolazione che nel frattempo si è rigenerata ed è pronta ad animare la vita della stazione.
Hai giusto il tempo di intravedere i fagotti trascinati via da chi quel posto lo chiama casa. Poi ti scrolli di dosso la nostalgia.
La piazza piena di autobus risuona di rombi e grida.
Il sole sembra più caldo.
Ma alle tue spalle, lo sai, c’è sempre quel binario che corre accanto al mare.
Aspetta i tuoi cari.

Aspetterà anche te.


Risposte

  1. Le stazioni ferroviarie fanno una strana impressione pure a me. Quella di Catania più di altre. E’ un luogo di passaggio, credo per quello mi evochi nostalgia. Tutti in attesa per un po’ e poi via…

    Mi capita spesso di passarci, a volte per prendere il treno, altre solo per acquistare un biglietto amt altre ancora per accompagnare o aspettare qualcuno.

    Anni fa, può sembrare strano, ci passavo anche del “tempo libero”. Hai presente la fermata metro? Alla fine del lungo sottopasso, sali le scale e di fronte a te: il mare. Un gran panorama! Stavo lì con la mia ragazza in attesa che arrivasse il treno. Avevo scelto quel posto come luogo dell’attesa.

    Capitava di starsene seduti a guardare il mare mentre tanti stranieri attraversavano i binari della metro e scomparivano giù per la scogliera, non mi chiedere dove andassero e perché, non lo so. A volte incontravo pure dei pescatori.

    Rimane il fatto che la cosa più interessante che gravita attorno a quei 9 binari sono le persone, tante e non troppe. Tutte diversissime, tipi sociologici che varrebbe la pena studiare.

  2. Ho sempre avuto un debole per I treni.
    Il tuo articolo che rileggo solo oggi, mi ha fatto ricordare un mucchio di viaggi , ma anche molte nostalgie.
    Quando appena laureato andai in Svizzera a lavorare.
    Le stazioni ferroviarie erano i luoghi di riunione degli emigrati; a quei tempi, per lo più italiani.
    Anche oggi le stazioni ferroviarie hanno un significato particolare, ma, per gli emigrati, molto meno. In Svizzera, infatti, gli italiani di allora, si sono ben inseriti nel contesto della popolazione svizzera.
    Oggi gli emigranti viaggiano in aereo.


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